lunedì, 27 febbraio 2006

Teoria sugli anglicismi

Premessa

Non so spiegarne la ragione ma l'adozione di termini inglesi nella lingua italiana è un tema che, da sempre, mi appassiona. Ecco perché mi sento autorizzato a scriverne anche se non sono minimamente qualificato per farlo :-) .

Introduzione

Se nel mondo si parlasse una sola lingua molte cose sarebbero più semplici ed io ne sarei ben lieto (perché, tanto per dirne una, non mi farei più tante paranoie sull'Itaglish o sull'argomento di cui mi appresto a scrivere). Purtroppo non è così, l'inglese si è praticamente imposto come lingua internazionale ma, a livello locale, la gente continua ad usare il proprio idioma originario. Un effetto di questa convivenza, nel caso dell'Italia e dell'italiano, è per l'appunto una crescente adozione di anglicismi.

Negli ultimi anni l'attenzione su questo tema, che nel passato passava abbastanza inosservato, è molto aumentata (o per lo meno questa è la mia impressione).
L'esempio più evidente (che conosca) è quello della trasmissione Diario condotta dalla giornalista Roberta Giordano che fino alla fine del 2005 andava in onda su Radio 24. Tale trasmissione ospitava regolarmente Francesco Sabatini, attuale presidente dell'Accademia della Crusca. Egli, sollecitato dalle domande degli ascoltatori, parlava spesso di specifici termini inglesi diventati d'uso comune in italiano e qualche volta estendeva il discorso a delle considerazioni di carattere generale.
Altri esempi si possono trovare cercando in rete, tra questi mi piace ricordare i post di Assente (già citati su Superfluo) che, oltre ad essere interessanti, includono riferimenti a varie altre risorse.

Cause

Ho già detto nell'introduzione della convivenza tra italiano ed inglese che crea certamente un terreno fertile alla mescolanza tra le due lingue. Esistono anche altri motivi per cui siamo inclini ad utilizzare sempre più anglicismi? A tal riguardo ho sentito molte volte Sabatini appellarsi alla maggiore sinteticità di tale lingua rispetto alla nostra. In molti casi ciò è certamente vero ma questa secondo me è soltanto una concausa: se non esiste un modo comodo per dire una cosa si potrebbe sempre idearlo (spesso è quel che è appena stato fatto per la parola che prendiamo a prestito!), o no? I veri motivi sono quindi altri:

  • un diffuso disimpegno nella cura della nostra lingua,
  • semplice pigrizia, perché devo spaccarmi la testa a trovare una nuova parola? Non sono nemmeno pagato per farlo!
  • mancanza di fantasia, vorrei trovare una parola adatta ma proprio non mi viene! Ogni volta che faccio questa considerazione mi chiedo anche quanto di vero ci sia nel luogo comune che vorrebbe tutti gli italiani pieni di estro e fantasia (a cui spesso ho sentito appellarsi vari amministratori delegati nostrani per propagandare i propri prodotti ;-) ).
  • preferenza per le parole non italiane. A molti di noi pare più bello chiamare le cose con il loro nome straniero anziché con un italiano fuori moda (o dovrei dire demodé? ;-) ).

L'ultimo dei precedenti motivi, qualche volta in combinazione con la pigrizia, è alla base dell'uso più ingiustificato, e che quindi meno comprendo, dei termini inglesi nell'italiano. Per illustrare meglio cosa intendo, posso rifarmi di nuovo ad Assente, che nel suo post L'italiano non piace agli italiani l'ha esemplificato alla perfezione, oppure ad un divertente articolo sul Giornale di Brescia. Qualche esempio in più però non guasta mai:

  1. tempo fa ad un telegiornale radio invece di dire guardia del corpo usavano il corrispettivo inglese. In questo caso si trattava, credo, di disattenzione visto che nelle edizioni successive il termine era stato tradotto :-) ma il fatto che succedano queste cose è già significativo,
  2. girovagando in rete ho notato che una delle tipologia in cui un sito cataloga i bar di Verona è l'After dinner. Questo invece è, secondo me, il tipico caso in cui abbiamo uno strano rifiuto per la nostra lingua: evidentemente dopo cena, anche se più corto, suona male, non rende l'atmosfera quanto after dinner (immaginatelo pronunciato con la giusta enfasi ...). Col cavolo! After dinner non vuol dire altro che dopo cena (ad esser precisi, se fosse stato scritto con un trattino tra le due parole, significa del dopocena) e questa è la sola atmosfera che suscita in un madrelingua inglese. È invece francamente ridicolo che a noi italiani faccia un altro effetto. Chi ricorda il film Un pesce di nome Wanda? Ecco, a parti invertite siamo come la protagonista che si eccitava a sentire il proprio compagno pronunciare in italiano nomi di pietanze ed altre frasi comuni (se avete un'amante inglese e vi chiedete quali siano le pietanze giuste potete leggervi il divertentissimo copione del film),
  3. ultimamente sento spesso usare l'espressione smoking gun (sono tempi bui) quando in italiano ce n'è una di altrettanto evocativa: canna fumante. Secondo me l'unica giustificazione plausibile per tale preferenza è un eccesso di anglofilia,
  4. i prodotti che troviamo pubblicizzati un po' ovunque hanno nomi di fantasia che spesso tradiscono una qualche origine esotica. Questo può significare due cose:
    1. o tutti gli esperti di marketing sono particolarmente soggetti al fascino straniero,
    2. o ci sono delle oggettive ragioni per ritenere che il nome italiano faccia vendere meno.
    Secondo me le due cose sono collegate e valgono entrambe: gli esperti di marketing soffrono di esterofilia al pari di molti altri, la stessa esterofilia rende più accattivante il nome straniero,
  5. si potrebbe scrivere un intero post sui titoli dei film hollywoodiani che, molto spesso, non vengono tradotti. Capirei se poi venissero proiettati in lingua originale ma invece continuiamo a doppiarli e quindi qualcosa proprio non mi torna! Io comunque mi chiedo se veramente Hostel sia in qualche modo più intrigante di Ostello ...
  6. se concentriamo la nostra attenzione a certi particolari settori, i termini inglesi compaiono in quasi ogni frase. Noi informatici ci battiamo bene ma anche quelli che si occupano di economia non scherzano, come può appurare chiunque abbia la voglia di ascoltarsi un loro convegno.
Aspetti negativi

Fin qui ho descritto il fenomeno ed ho discusso di quelli che sono i motivi scatenanti. Ora spiegherò perché io ritenga che esso possa essere in qualche modo dannoso.

La presenza di una parola di origine straniera nell'italiano, di per sé, non mi preoccupa minimamente! Al limite, come detto, mi infastidisce un po' quando è del tutto superflua. È normale che, confrontandosi con altre culture, si rubino dei termini e questo non è affatto negativo. Nel passato è già successo moltissime volte senza causare grossi problemi ed oggi usiamo comunemente un sacco di parole che provengono dal francese, dal tedesco, dall'arabo o da chissà quale altra lingua.

Dell'origine straniera della maggior parte di questi termini però non ce ne accorgiamo minimamente perché il loro assorbimento è stato graduale e si sono perfettamente adattati alla nostra lingua. Ecco un esempio di come potevano andare le cose un tempo (almeno credo): nei mercati arrivava un prodotto straniero e i venditori, non ricordandosi bene il nome originale, lo storpiavano un po' (o se lo inventavano di sana pianta :-) ). Lo stesso facevano poi i clienti parlandone ai loro amici e parenti. In questo modo, di passaparola in passaparola, storpiatura dopo storpiatura, si formavano tante nuove parole per indicare quel prodotto. Col trascorrere del tempo, infine, una sorta di selezione naturale faceva sopravvivere solo i termini che si erano meglio adattati alla lingua locale. Oggi invece, se negli Stati Uniti d'America presentano la Play Station, dopo pochi minuti anche tutti noi vogliamo quella macchina delle meraviglie e sappiamo anche esattamente come chiamarla: la Play Station, che fa tanto figo ma altro non è che una postazione di gioco. Tutte queste nuove parole diventano subito d'uso comune ma spesso non sono molto compatibili con la nostra lingua e quindi possono causare qualche inconveniente!

Per spiegare meglio in cosa consista questa incompatibilità e tali conseguenti inconvenienti occorre distinguere tra italiano parlato e italiano scritto.

Occorre inoltre introdurre una convenzione per indicare il modo in cui sono articolate le parole straniere: metterò tra parentesi quadre il termine che letto all'italiana mima la pronuncia in questione (o meglio, quella che io credo sia la pronuncia), qualche esempio: team -> [tiim]
hockey -> [ochei]
mobbing -> [mobbingh]
boom -> [bum]
wrestling -> [vrestlingh]

L'uso dei simboli fonetici al posto di questa convenzione sarebbe stato certamente più preciso ed elegante ma, purtroppo, va al di là delle mie conoscenze in materia :-( .

Nella lingua parlata, per la verità, il problema non è molto grave. In questo contesto, infatti, il processo di italianizzazione è del tutto naturale: le parole vengono adattate automaticamente perché altrimenti non potrebbero essere utilizzate. I verbi ad esempio devono essere coniugati con i nostri tempi e modi e costituiscono così una ricca fonte di veri e propri neologismi che non arrecano alcun danno alla nostra lingua, anzi, semmai la arricchiscono. Per quanto riguarda la pronuncia, la maggior parte delle persone, spontaneamente, preferisce dare un suono più italiano ai termini inglesi e anche questa, a mio modesto avviso, è una cosa positiva. Per la verità ad alcuni tra quelli che conoscono molto bene l'inglese preme usare la corretta pronuncia ma questo è un errore perché stanno parlando in italiano! (una piccola nota: non abbiatene a male per quanto ho scritto, io in realtà vi invidio moltissimo per la vostra padronanza dell'inglese!) L'ignoranza quindi è una volta tanto propizia :-) ma produce anche degli effetti collaterali: siccome siamo in tanti a non sapere il modo giusto in cui si dice una parola inglese, capita di ritrovarsi con diverse versioni orali dello stesso termine e questo, chiaramente, genera un po' di confusione.
È interessante osservare che alle volte la forma ad imporsi è quella sbagliata, cioè quella che non corrisponde alla dizione originale. In un bel post di Blog from Italy sono riportati alcuni casi del genere oltre ad altri divertenti esempi di parole introdotte dall'inglese che hanno addirittura assunto un nuovo significato.

Se dunque, nella lingua parlata (a mio avviso), l'invasione in atto non crea troppi danni, nella lingua scritta abbiamo invece uno scempio :-( . Di primo acchito potrebbe sembrare strano: se il termine inglese va bene nel parlato perché non anche nello scritto? In effetti per lo scritto si possono ripetere, nel bene e nel male, la maggior parte delle osservazioni fatte al punto precedente ma c'è un aspetto in più da considerare.
Quando alle scuole medie studiavo tedesco mi insegnavano che tale lingua, come l'italiano, ha delle regole fisse di pronuncia. Ora purtroppo l'italiano ha perso questa caratteristica proprio a causa dell'enorme numero di termini inglesi che sono stati adottati negli ultimi anni e questo è il motivo per cui ritengo che il fenomeno sia anche dannoso!

Sembra una cosa da poco ma non è così:

  • molti anni fa, quando a scuola facevo il dettato, sentita una parola era relativamente facile scriverla (doppie consonanti a parte per le quali i trentini come me hanno di solito un rifiuto congenito). Ora però è tutto un altro paio di maniche ... Provate ad immaginare i bambini che devono scrivere il project manager, durante il meeting, descrisse con precisione i know how necessari per la realizzazione dello studio (va bene lo ammetto, non credo che sia una tipica frase da dettato ma non mi veniva in mente altro e rendeva molto bene l'idea ;-) )!
  • Vale anche il percorso contrario: quando vedo come è scritta una parola italiana so anche, a meno di errori su dove porre l'accento, come pronunciarla. Con i termini provenienti dalle lingue straniere non è più così e di nuovo mi rattristo a pensare ai bambini delle elementari chiamati a leggere ad alta voce qualche paragrafo del sussidiario o qualche articolo di giornale ... Se penso che a me Magnum P. I. e l'A-Team (che inspiegabilmente venivano pronunciati [magnum piai] e [eitim]) erano bastati a creare insidiosi dubbi, credo che i bambini di oggi siano in preda a turbe psichiche di non poca rilevanza ;-) !
  • La discussione nata sulla Wikipedia italiana a proposito della corretta ortografia di scautismo (o scoutismo ;-) ) costituisce una dimostrazione evidente dei non pochi problemi connessi a questa questione.

C'è infine una problematica che riguarda in egual modo il parlato e lo scritto: come vanno declinate al plurale le parole adottate dell'inglese? Fortunatamente mi pare che siano gran pochi quelli che si azzardano, come nella lingua d'origine, ad utilizzare una s finale che in italiano è oltremodo cacofonica! Nella maggior parte dei casi però questi termini finiscono con una consonante e quindi non si prestano nemmeno ad una facile italianizzazione del plurale. Conseguentemente si tende a lasciare invariata la parola ma, visto il grande numero di casi di cui stiamo parlando, a lungo andare questa tecnica potrebbe avere effetti deleteri :-( .

La teoria

Visto che, come ho spiegato, ci sono certi aspetti di questo fenomeno che non vanno bene, è ovvio che io mi auguri che qualche cosa venga fatto a livello nazionale per porvi rimedio. Finora però, a giudicare dall'andazzo generale, mi pare che non sia ancora stato messo in pratica nulla di efficace per evitare questi problemi e nessun elemento mi fa pensare che in futuro ci sarà un'inversione di tendenza :-( .

Questo articolo (in forma di post) non vuole però limitarsi semplicemente a descrivere (e un po' criticare) lo stato delle cose. Esso intende anche illustrare la mia donchisciottesca soluzione, o meglio, una delle mie tante idee strampalate che pomposamente chiamo teorie e che, se applicate, risolverebbero i problemi del mondo ;-) (e che mia moglie è periodicamente costretta a sorbirsi ;-) ). Non si tratta comunque di nulla di particolarmente originale, la soluzione proposta (come sovente capita) è già chiara a molti, manca solo la volontà di metterla in pratica.

Come si potrebbe dunque rimediare al problema? Non sarebbe poi così difficile! Basterebbe stabilire delle regole precise da applicare per l'uso di termini stranieri e richiedere la loro adozione in ogni contesto pubblico (in primo luogo ai mezzi di informazione). Immagino che in paesi come Francia e Spagna vengano presi provvedimenti di questo tipo e che essi siano anche efficaci. Tali lingue sembrano infatti meno inquinate della nostra pur essendo ugualmente soggette alla pressione dell'inglese (me ne rendo conto quando confronto le diverse traduzioni delle interfacce delle applicazioni software).

L'aspetto interessante della cosa però è la definizione di tali regole.

Una prima ed ovvia norma di buon senso è certamente quella di usare i termini italiani quando questi siano disponibili. Siccome però, come ho già detto, questo non è l'aspetto nocivo del problema (fintantoché il discorso resti comprensibile ai più ...), si tratta di una regola opzionale, la cui applicazione è lasciata alla buona volontà delle persone desiderose del mio personale encomio ;-) :

  • se, riprendendo un esempio già fatto, parli di una bodyguard non ti biasimo ma se la chiami guardia del corpo allora mi sei un po' più simpatico;
  • un mio caro amico è fin troppo purista perché aziona con il mouse l'icona. Non vedo perché non voglia usare il verbo cliccare, un neologismo perfetto che si integra senza alcun problema nell'italiano orale e scritto e che è pure inserito nei dizionari. La cosa strana è che invece non badi al sorcio che secondo me meriterebbe ben maggiore attenzione :-) .

Nel caso in cui non esista un equivalente italiano del termine inglese, una seconda norma potrebbe imporre l'ideazione all'uopo di nuove parole. Questa credo fosse la consuetudine sotto il regime fascista ma io sono di manica più larga. Se qualcuno vuole prodigarsi nella creazione di italianissime parole faccia pure, io mi accontento del termine straniero, mi piacerebbe però che venisse adottato nel rispetto delle regole che seguono.

Qualsiasi sia dunque il motivo che ci porta a introdurre nella nostra lingua un vocabolo straniero (per pigrizia mentale, necessità di un sinonimo :-) , esterofilia, effettiva mancanza di un termine equivalente, ecc.) è necessario che esso assuma sembianze italiane. Come già detto per molti aspetti questo avviene in modo praticamente automatico e quindi in tutti questi casi possiamo evitare di stabilire delle regole apposite e lasciar lavorare il caso. Fa purtroppo eccezione la questione dell'ortografia che invece richiede il rispetto della seguente fondamentale norma:

i termini stranieri vanno scritti con l'ortografia italiana che ne imita la pronuncia originale. Nel seguito, per maggiore chiarezza, metterò le parole scritte secondo i dettami di questa regola tra parentesi graffe. Qualche esempio:

  • call center che, se non sbaglio, è pronunciato [coll senter], va quindi scritto {coll senter}, {treiner} indica il trainer (o l'allenatore) mentre, sul videoregistratore, i pulsanti possono essere etichettati con {plei}, {bech} e {forvuord} (o forse {foruord}?);
  • concedetemi anche qualche esempio per informatici: {debaggare} (da notare che anche bug, o {bag}, è entrato nei dizionari), {chillare}, {postare} che va bene con ortografia invariata, ecc.

Volendo veramente applicare questa soluzione, occorre definire meglio svariati dettagli, tra i quali:

  • se manca nella nostra lingua un suono adatto ad imitare una particolare pronuncia inglese, allora si dovrebbe decidere qual è l'articolazione italiana da usare sulla base di un criterio di vicinanza con l'originale. Ciò fisserebbe univocamente anche l'ortografia di tutte le parole con quel suono.
    Una seconda possibilità è quella dell'aggiunta di nuovi simboli o, più in generale, di nuove regole ortografiche, per gestire quel particolare suono. Bisogna però stare molto attenti a non creare ambiguità e ricascare nel problema che stiamo cercando di risolvere, bisogna cioè evitare di trovarsi con più modi per scrivere lo stesso suono o con più suoni associati alla stessa ortografia.
  • nel caso di parole la cui pronuncia termina con una c o un g gutturali (ad esempio block notes e shopping), io le scriverei rispettivamente, con un ch ({bloch notes}) o gh finali ({scioppingh}). Alternativamente, al posto del ch e del gh si potrebbero usare (anche all'interno delle parole) la k e una nuova lettera chiamata gappa. Questa però è un'altra teoria :-) .
  • analogamente, nel caso di parole la cui pronuncia termina con una c una g o un sc palatali (ad esempio coach e fotofinish) io le scriverei, rispettivamente, con una c ({coc}, da notare la differenza con {coch} che sta per cock e che non è (ancora) una parola italiana), una g e un sc ({fotofinisc}) finali.
  • come rendiamo il suono della x? Con la stessa lettera oppure usiamo la combinazione di consonanti cs? L'importante, comunque, è che si scelga ed usi una sola forma.

Si noti che l'applicazione di questa regola ci permetterebbe, con mio somma soddisfazione, di togliere di mezzo almeno tre lettere inutili del nostro alfabeto: la j, il w e la y. La k invece secondo me potrebbe essere utilizzata ovunque al posto del ch (ma questa sarebbe una causa ancor più donchisciottesca!) mentre alla x concedo il beneficio del dubbio.

Credo poi che sia necessario prevedere un'eccezione alla regola:
i nomi propri mantengono l'ortografia originale,
anche se ciò aprirebbe tutto un altro filone di discussione su cosa debba essere considerato nome proprio e cosa no.

Se perciò consideriamo Play Station un nome proprio, allora va scritto {Play Station} e non {Plei Stascion}, e così per {Clint Eastwood} e {Josey Wales}, {texano} (o {tecsano}?) dagli occhi di ghiaccio.

Per il momento non ho ancora le idee chiare in merito alla questione dei plurali. Come ho già detto temo che il mantenere tutte queste parole invariate al plurale possa rendere in troppi casi ambigua la nostra lingua. D'altra parte credo che all'invenzione di nuove parole ad hoc non sia una tecnica destinata al successo anche se esempi come {faili}, plurale di {fail} (cioè il file, da non confondersi con le file, plurale di fila), hanno un loro fascino :-) .

Conclusioni

Tutto qua, la teoria è tutto sommato molto semplice: in pratica consiste nella sola applicazione di una banale regola di scrittura dei termini inglesi. Il suo impatto sarebbe però rilevante:

  • da una parte garantirebbe il mantenimento di regole fisse di pronuncia nell'italiano. Come ho spiegato, questa è a mio parere una caratteristica molto utile della nostra lingua che è oggi messa in discussione dall'adozione di parole straniere. Fin che si tratta di poche, rare eccezioni non si fanno grossi danni, anzi si aggiunge un pizzico di colore che a qualcuno può anche piacere. L'invasione in atto non può essere invece accettata senza per lo meno porsi il problema.
  • dall'altra creerebbe forse qualche difficoltà in più nell'apprendimento dell'inglese, lingua che è ormai indispensabile in molti ambiti professionali. A prescindere dalla mia folle proposta, penso che non avrebbe senso condizionare l'evoluzione dell'italiano ad un calcolo di convenienza di questo genere (e per così poca e dubbia convenienza poi!).

L'applicazione della teoria non è comunque in discussione dato che nessuno la prenderà mai sul serio :-) . Che sia però potenzialmente possibile metterla in pratica è fuori di dubbio come può constatare chiunque si prenda la briga di provarci.
Chi lo fa, noterà una cosa strana: risulta più difficile adottare la regola di scrittura proposta piuttosto che utilizzare direttamente l'ortografia inglese! Ciò è un po' paradossale perché il fine principale (e unico) della teoria è proprio quello di semplificare le cose, assoggettando gli anglicismi alle comuni norme italiane. Tale disorientamento, secondo me, deriva dal fatto che siamo già abituati a scrivere quei termini all'inglese ma con un po' di esercizio ogni incertezza svanirebbe. Ricordiamoci poi che i bambini imparano a scrivere da zero e certamente preferiscono affidarsi ad un'insieme preciso e limitato di norme piuttosto che a un guazzabuglio di regole di pronuncia italiane e inglesi (con il dubbio su quali dover applicare di volta in volta) corredate da centinaia di casi particolari. Infine, diciamolo pure, anche tutti gli ignoranti come me sarebbero molto contenti di non dover più ricorrere al vocabolario ogni volta che gli tocchi scrivere o dire qualche parola di provenienza straniera.

Tutto il discorso fatto si può estendere a termini di qualsiasi origine. Il caso dell'inglese però è certamente il più importante perché è da lì che attualmente provengono la stragrande maggioranza delle nuove parole e perché si tratta di una lingua molto vicina all'italiano. Questa sua vicinanza, come già detto, rende facile l'assorbimento delle parole nel parlato e ci fa sottovalutare gli effetti deleteri nello scritto. Se l'invasione in atto fosse da parte di una lingua molto più distante dalla nostra, allora forse le difficoltà nell'utilizzarla ci renderebbero più consapevoli dei danni arrecati e quindi saremmo più incentivati a cercare qualche rimedio. Tanto per dirne una: se si trattasse di parole tedesche nessuno si farebbe problemi a sostituire la ß con una doppia s. Se non altro perché sulle tastiere italiane tale lettera non c'è :-) .

Il modo migliore per terminare questa sezione mi sembra sia l'istituzione, seduta stante, del movimento scrivi come mangi finalizzato alla promozione della teoria qui esposta. Semplifichiamo la nostra vita e quella dei nostri figli! Al motto per un italiano facile da scrivere e da leggere prendiamo tutti parte a l'iniziativa scrivi come mangi! Questo per lo meno fino a quando l'inglese (o qualche altra lingua) non sarà conosciuto da ogni essere umano. Quel giorno potremo abbandonare tutti gli idiomi locali e smettere (soprattutto io) di farci certi problemi. Io ne sarei felice ma dubito di vivere abbastanza a lungo per vedere concretizzarsi una cosa del genere.

Un'alternativa

Essendo stato breve e conciso, ho ancora spazio per una divagazione sul tema.

Esiste una seconda tecnica, ortogonale a quella proposta, che consente di mantenere l'usuale facilità di lettura e scrittura dell'italiano. In realtà, grazie a mio padre, è anche stata la prima a venirmi in mente.

Evidentemente, quando era giovane lui, la televisione e la radio non erano onnipresenti e la carta stampata la faceva ancora da padrone nel diffondere ogni novità. Le parole straniere venivano quindi imparate per come erano scritte mentre ne rimaneva ignota la pronuncia. Fu così che molti anni fa, in un rara discussione in famiglia su temi musicali, lui se ne esce con poi sono arrivati i Beatles ma a me non piacevano tanto (per la verità le parole precise saranno state più vicine a queste: dopo è vegnù fora i Beatles ma a mi noi me piaseva masa). E allora? E allora Beatles era pronunciato leggendo la parola all'italiana, cioè [beatles] e non [bitols]! La cosa, ovviamente, da sciocco adolescente e saputello qual ero, mi fece piuttosto ridere! In seguito però (precisamente dopo i già citati casi di Magnum P. I. e A-Team) riflettei meglio sulla cosa e capii che era lui ad avere ragione!

La regola alternativa è proprio questa: scrivere i termini nel modo originale ma leggerli all'italiana. Questa regola è chiaramente duale rispetto a quella proposta ed è quindi vantaggiosa dove l'altra è svantaggiosa e viceversa. Ho tra l'altro notato che questa regola trova già una tacita applicazione in alcuni nostri modi di dire: quanti, come me, pronunciano made in Italy così come è scritto (cioè [made in itali]) invece che [meid in itali] (che credo sia la pronuncia originale inglese)?

Per la precisione devo dire che essendo Beatles un nome proprio forse sarebbe meglio mantenere sia l'ortografia che la pronuncia originali, quindi mio padre non aveva proprio tutta la ragione ;-) .

Avvertenze

Ovviamente io sono un sostenitore di scrivi come mangi ma sono anche consapevole che si tratta di un movimento privo di alcuna autorevolezza (e, oserei dire, un tantino di nicchia). Sono quindi costretto, mio malgrado, a scrivere gli anglicismi così come indicano i dizionari cioè, tranne qualche rara eccezione, con la loro ortografia originale. In genere, comunque, tendo ad evitare l'uso di termini stranieri, specialmente quando sono scritti in modo che una lettura all'italiana non ne produce la corretta pronuncia (e questi purtroppo sono la stragrande maggioranza dei casi). Per non risultare ora troppo contraddittorio, preciso che titolo e descrizione di Superfluos sono in inglese per dualità con Superfluo, che invece ha titolo e descrizione in italiano pur essendo scritto in uno pseudo-inglese.

Quando mi capita di cimentarmi in (approssimative) traduzioni ed incappo nella classica parola che non si riesce a rendere nella nostra lingua applico lo stesso criterio. Se l'ortografia è sana allora mi prendo la libertà di adottare la parola così com'è, il miglior esempio che possa fare a tal riguardo è post (anche se purtroppo coincide con il prefisso italiano post ma questo è tutto un altro genere di problemi). In caso contrario posso anche lanciarmi nell'ideazione di improbabili neologismi ma il più delle volte devo desistere e rassegnarmi ad usare il termine originale. Per questi casi un buon esempio sono la syndication ed i relativi feed. Siamo di fronte a due parole che stanno diventando di uso comune ma che non sono ancora entrate nei dizionari (per lo meno nei due, on line, che consulto abitualmente) e che quindi possiamo ancora considerare straniere. Purtroppo bisogna anche constatare che:

  • non esistono, per quel che ne so, delle traduzioni condivise di tali termini nella nostra lingua,
  • hanno un'ortografia malsana.

Su Superfluos ho quindi azzardato un provviste al posto di feed e ho lasciato syndication invariata. Quanto più belle sarebbero però state {sindicascion}, {fiid} e, già che ci siamo, {on-lain}?

Mia moglie si chiama Sakscia ma si pronuncia [sacsia]. Non è mai stato chiaro se si tratti di un nome di origine straniera o se sia frutto della fervida fantasia dei suoi genitori, a riguardo ci sono testimonianze contrastanti che, a parer mio, nascondono la volontà di prendere le distanze dall'accaduto ;-) . Fatto sta che portare quel nome è piuttosto scomodo: non c'è occasione in cui non sia necessario spiegare come sia scritto all'interlocutore di turno! Neanche a dirlo, nel periodo in cui iniziavamo a frequentarci, io affrontai il tema dell'ortografia e della pronuncia di Sakscia centinaia di volte, a ripensarci adesso mi chiedo come abbia fatto a sposarmi ... (già me la immagino quando leggerà questa frase e dirà ed era solo la punta dell'iceberg (o {aisbergh}?)!)

Altre risorse/Approfondimenti

Se qualcuno è giunto fin qui allora probabilmente sarà interessato a approfondire la questione (non è necessario farlo subito ;-) ). A tal fine, delle tante cose che ho trovato scrivendo questo articolo, segnalo le seguenti:

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Scritto da Nicola Piccinini alle 12:17 AM in teorie/